Ero ancora bambino. Ero nato pochi anni prima in un piccolo paese di provincia che in quel periodo stava accogliendo l’idea di modernizzarsi.
La semplicità dei muri medievali veniva contaminata dai cablaggi delle linee telefoniche che si snodavano a zig zag fra le vecchie vie.
Segnaletiche fiammanti decoravano le strade attorniate dai boschi. I guardrail le rendevano sicure e moderne.
Il progresso, quello di allora, arrivava anche lì. Con un ritardo spaventoso, ma era lì, finalmente, con la benedizione di tutti. E poi l’asfalto. Le vecchie carrarecce sgangherate diventavano confortevoli piste silenziose e funzionali.
La strada era stata bitumata durante l’inverno e quel nastro cupo d’asfalto nero avrebbe ricoperto per sempre vecchie pietre e i vetusti solchi disegnati dai carri in secoli di passaggi.
Poi arrivò la primavera.
È in quel momento che mi colpì una scena che nel tempo avrei ripensato molte volte. Qualcosa, ad essere sotterrato per sempre, non si era rassegnato.
Per la prima volta, con lo stupore del bambino, scoprivo che tenerissimi germogli d’erba, con tessuti fragili e vellutati, avevano la forza di aprire quello strato duro e compatto di catrame. Sollevarlo, frantumarlo, scardinarlo, per poi uscire e distendersi prepotentemente al sole. Quel sole che gli spettava di diritto e che quell’asfalto si illudeva di negare rendendo tutto grigio e piatto.
Era sorprendente come quei semini potessero contenere tanta forza e tanta determinazione. Come sapessero di averla. Con quanta sicurezza si fossero messi in moto per niente inibiti dalla pressione del catrame. Come conoscessero bene la via per uscire nonostante il buio in ogni direzione.
Ma il loro contributo di bellezza da regalare al mondo non poteva mancare. E quindi erano lì, e da lì a poco sarebbero fioriti.
Perché nessuno, neanche il meno cosciente degli esseri viventi sulla terra, può mancare al suo impegno, può essere sottratto alla sua missione.
E non è un caso che IEROGLIFO nasca proprio in primavera, nel tempo in cui sbocciano i fiori più belli. Con la stessa forza di quei semi. Per frantumare quello spesso strato di pesante e falso conformismo in cui è stata sepolta l’arte.