Di Donatella Galasso
Torino è la città che più di altre negli ultimi decenni ha scommesso sulle nuove tendenze dell’arte, complice la presenza di importanti istituzioni museali con una forte vocazione verso l’arte contemporanea come la GAM il Castello di Rivoli e gallerie d’arte che fin dagli anni ’70/’80 hanno contribuito a far emergere diversi artisti che ormai sono storicizzati.
Negli anni tale fermento si è tradotto nella nascita di fiere con un respiro internazionale e fra appuntamenti vecchi e nuovi che cercano una nuova configurazione, si inizia ad intuire che il panorama, rispetto alle prime edizioni, è talmente mutato che è difficile scorgere quello che sarà l’orientamento futuro.
Infatti le proposte non solo si sono moltiplicate, ma la concorrenza alla fiera capofila, ovvero Artissima, rischia di surclassare quest’ultima, sia in termini di arte accessibile ad un pubblico più vasto, e non solo di nicchia, sia in termini di cambiamento di prospettiva e di quale sarà la funzione dell’arte in un tempo neanche troppo lontano.
La mia analisi si concentra su Artissima e Flashback poiché ritengo che possano essere due appuntamenti molto rappresentativi del panorama delle fiere dedicate all’arte in Italia.
Seppur nel caso di entrambe le fiere si scorge l’intenzione da parte dei curatori di riconfermare il proprio ruolo sia in termini di impronta che si vuole lasciare nel panorama dell’arte, non solo locale, e sia nell’impatto che esse hanno a livello di ricadute economiche, nonché della propria importanza nell’essere un laboratorio di nuove tendenze e attitudini, appare palese che in entrambi i casi si stia assistendo ad una sorta di riconfigurazione di obiettivi, peraltro non ancora del tutto esplicitati.
Ad esempio il tema della Metamemoria scelto come filo conduttore delle opere presenti a FlashbackHabitat ha il merito di riunire opere, lontane fra loro nel tempo, in un’unica cornice interpretativa ovvero quella relativa al discorso della capacità dell’arte di attraversare i secoli rimanendo attuale anche quando non è in grado di connettersi in modo inequivocabile con un dato storico o sociale.
Fino a considerare l’opera d’arte un lavoro contemporaneo nel passato, nel presente e nel futuro in una sorta di tempo verticale anziché orizzontale. E allora ben venga una fiera come Flashback che ha l’indiscutibile merito di rimescolare le carte su stili, tematiche e su cosa voglia dire oggi fare ricerca nel campo dell’arte, senza porsi limiti. Tutto ciò che potrebbe apparire una forzatura, è invece a mio avviso uno dei segnali di come sia sempre più urgente uscire da quelli che sono delle costrizioni entro il quale il discorso sull’arte contemporanea è stato assoggettato.
In questo Flashback ha avuto e ha il merito di aver rotto una sorta di incantesimo che aveva impedito qualsiasi cambiamento di rotta rispetto allo status quo, il quale sembrava indicare un unica direzione che aveva a che fare con tematiche e precondizioni che escludevano a priori potenziali scenari.
Mi riferisco ad esempio al lungo periodo, fine anni ’90 e inizio anni duemila, in cui la pittura era quasi scomparsa a favore di installazioni e opere video, come se la pittura non fosse più un linguaggio adatto alla contemporaneità. Un’incredibile défaillance che ha fatto perdere all’arte e al sistema che la promuove, sponsorizza e avvalora, possibilità di far emergere artisti che attraverso la pittura sono stati in grado di fare una ricerca di alto livello.
D’altra parte per lungo tempo una fiera d’arte come Artissima ha rappresentato nel tempo tendenze artistiche che andavano sempre più verso una destrutturalizzazione del manufatto artistico, che si è trasformato in un simbolo, pronto ad essere mercificato, in una sorta di ubriacatura collettiva, più attenta a cercare il clamore e lo scandalo che un valore universale di alta statura morale o che più semplicemente rappresentasse l’unione delle parti che concorrono a creare un’opera d’arte armoniosa ed equilibrata.
In definitiva mi sono chiesta se non sia arrivato davvero il momento di togliere di mezzo dal discorso sull’arte claim come quello dichiarato nel titolo di quest’ultima edizione di Artissima: “Relations of Care”, il cui intento sarebbe quello di formulare un’ipotesi mirata a preservare la diversità e il valore di ogni forma di vita del mondo, abbandonando qualsiasi ideologia di superiorità dell’uomo occidentale nei confronti della natura, mi sono chiesta visitando la fiera quali opere avessero l’intento reale di abbandonare la “superiorità” del mondo occidentale e se davvero questo sia un problema reale o più una dichiarazione priva di una vera necessità, o di un vero obiettivo, a cui gli artisti mirano. Infatti essa appare una forzatura, più che una tematica ben osservabile o delineata nelle opere esposte, che paiono avere intenti molto distanti per essere comprese in un unica cornice.
Francesco Milizia, teorico del neoclassicismo, sul bello ideale scrisse che “La natura non dà mai un tutto perfettamente bello: frammischia sempre, fra le parti belle, altre meno belle, e anche delle brutte o per eccesso o per difetto. L’artista sceglie le più belle e ne fa un tutto compiutamente bellissimo. Questo è il bello ideale. L’opera d’arte deve essere caratterizzata da semplicità’, ma nello stesso tempo deve esprimere il dominio sulle passioni umane e mirare ad una bellezza ideale superiore.”
Girovagando fra le stanze di FlashBack Habitat e gli stand di Artissima mi sono data un unico obiettivo – al di là di stili, epoche, soggetti e tecniche artistiche – quello di trovare opere che avessero le caratteristiche sopra descritte dal Milizia, ovvero elementi di concordanza, di equilibrio cromatico e armonia delle parti.
E sono dovuta arrivare alla conclusione che solo quando l’arte tornerà a dare piacere nell’osservarla – abbandonando ideologie atte a farla piegare a mero strumento di propaganda, di auto celebrazione fine a se stessa – potrà davvero tornare al suo compito primario: confortarci e farci percepire la sacralità dell’uomo e non certo per indugiare sui suoi più bassi istinti.
Sono certamente consapevole che in ogni epoca mecenati e committenti hanno commissionato opere che dovevano portare rappresentare un certa ideologia o potere temporale, e spesso proprio gli stessi artisti hanno aderito acriticamente a determinati obiettivi prestando la loro opera, come sono consapevole che alcune opere sono entrate nei libri di storia dell’arte come simboli universali dell’orrore della guerra, penso naturalmente a Guernica di Picasso.
Però non posso esimermi dal dare ragione ad Angelo Crespi, autore di “Nostalgia della bellezza” (Giubilei Regnani Editore) in cui egli afferma che è indubbio che “al sistema dell’arte non interessa la bellezza perché in essa domina un profondo nichilismo che impedisce di capire che la bellezza è innanzitutto un valore politico prima che estetico: essa spinge all’imitazione positiva, ci induce all’imitazione nelle sue forme e dei suoi modi, crea armonia, differenze e aggregazioni proprio mentre ci sono forze che tentano di spingere verso l’entropia e l’indifferenziazione.”
Si ha infine l’impressione che in questa smania di possesso di un’opera che possa in futuro avere un valore superiore a quello attuale si sia perso quello che dovrebbero essere gli obiettivi primari, ovvero possedere un’opera d’arte in quanto la consideriamo bella e per il piacere di custodirla per il tempo terreno che trascorriamo nel mondo.
“Ci sono due tipi di artisti: quelli che vogliono passare alla storia e quelli che si accontentano di passare alla cassa.”
Giorgio Gaber
Invece siamo in una fase di decadenza, in cui appare sempre più palese che tutte le azioni che si compiono nel mondo del mercato dell’arte sono finalizzate alla mercificazione di ogni aspetto della produzione artistica. In una giostra fatta di vanità e autoreferenzialità e in cui tutti i fiumi di inchiostro usati per legittimare determinate scelte curatoriali e mercantili si imbattono di fronte ad un dilemma irrisolto e sempre più stringente: per quanto ancora si potrà accettare che al prezzo e al valore di un’opera non corrispondano qualità artistiche ascrivibili a scelte e ricerche artistiche non condizionate dall’influenza di diktat di curatori, direttori di musei e galleristi?
Per ora siamo ancora al banalissimo “if it sells, it’s art” come ebbe a dire Frank Lloyd Wright, al quale l’italianissimo Giorgio Gaber avrebbe replicato dicendo che “Ci sono due tipi di artisti: quelli che vogliono passare alla storia e quelli che si accontentano di passare alla cassa.”
La contraddizione dei nostri giorni più evidente è che per entrare nei libri di storia dell’arte, soprattutto quella contemporanea, si è quasi sempre dovuti passare anche dalla cassa.
Liberare l’Arte dall’essere prima che merce, opera dell’ingegno e della maestria dell’essere umano sarà la grande scommessa per il futuro.
Donatella Galasso