A commento visivo di questo articolo una serie di scatti analogici dell’autore, in bianconero essenziale, che ritraggono brandelli di natura e del nostro paesaggio antropizzato recente e già segnato dal tempo… la fotografia nella sua nudità.
Poco tempo fa – del tutto fortuitamente – ci è capitato di scambiare un qualcosa di ben più delle famigerate “4 chiacchiere” con un (ex) fotografo di moda, “un grande davvero”. Abbiamo messo l’ex tra parentesi in quanto in realtà egli continua imperterrito a fotografare tra le quattro mura (ce l’avessimo noi il suo studio da 4 mura!) del suo studio a dispetto – come dire? – del chilometraggio che segna la sua venerata età ed ahinoi! di una malattia, parassita, incombente.
Assieme ci è capitato di sfogliare un recente numero di “Vogue” che recava alcune pagine colle immagini dell’archistar di turno della photo fashion, Jürgen Muller1 e nel mentre osservavo il Maestro contorcersi il volto in un rictus, una specie di smorfia di disgusto, al che osai chiedergli il perché di quella reazione, incuriosito assai.
L’ottuagenario Maestro, vero e proprio arbiter elegantiae della fotografia di moda, ebbe una notorietà che travalicò ampiamente i confini nazionali, mi disse: “Ma non scorgi la sciatteria di queste immagini? La banalità di base che è sottesa a tutta questa serie di immagini? Foto che avrebbe potuto scattare davvero chiunque, come sono prive di eleganza?”.
Rimasi allibito, zittito e colsi l’occasione di congedarmi dal Maestro, ma gli chiesi cortesemente il prestito della rivista; dandomela mi apostrofò, congedandomi così: “Guarda che la fotografia è diventata il prossimo dead man walking, non ti credere! La fotografia è finita! FINITA PER SEMPRE” e mi lasciò ancor di più allibito di prima.
Una volta a casa mi venne la smania di rivedere non solo quel numero di “Vogue” ma anche altri della mia collezione, simili e fare ovviamente la solita scandagliata del caso via google alla ricerca di quel tema e nel farlo mi risuonavano in mente le parole del Maestro, lanciate come in aria come un anatema.
Mi domandavo incessantemente cosa ci potesse essere di vero in una affermazione mirabolante che mi metteva in ambascia tanto più che conoscevo, ero ben cosciente, che la “sentenza” del Maestro non era assolutamente dettata da una sorta di invidia, motivata dall’esser lui ben oltre la via del tramonto, giacché in vita sua aveva avuto tutti i difetti ma non certo quello dell’invidia, tant’è vero che fu mentore di una pletora di fotografi emergenti aiutandoli a piene mani nel costruirsi la propria strada.
Mentre cercavo di staccarmi da quel pensiero ossessionante – la fotografia stava nel mio cuore davvero, in profondità – ecco che mi imbatto in un pezzo giornalistico in cui si dà conto che l’impiego di animali addestrati all’uopo per riprese cinematografiche si sta sempre più assottigliando drasticamente in quanto sostituiti da animazioni digitali che simulano in tutto e per tutto le “parti” che un tempo, a dir la verità sino a “ieri”, erano assegnate appunto agli animali.
Abbiamo già parlato, per soprammercato, proprio da queste pagine, quanto di “sintetico” ci sia nell’avvento della A.I. nel campo della fotografia, di elemento freddamente “artificiale” nella creazione di quei pittogrammi prodotti dalla A.I. che vengono spacciati per quello che un tempo tutti noi chiamavamo col lemma “fotografia”.
Persino nei più che prosaici annunci immobiliari più spesso che volentieri le fotografie ancorché di schifosa qualità vengono soppiantate da rendering per cui tu non capisci proprio un ben nulla se gli interni di un dato immobile siano quelli che in effetti sono ma rimani solo ammaliato, stregato sarebbe il caso di dire, da una ipotetica bolla immaginativa: sotto il vestito, dunque, il nulla.
Ulteriore tassello di questo mosaico dell’ultima ora ecco la testimonianza di un fotografo ubicato nell’estremo Nord-Est italico, che sorto quasi dal nulla (proviene infatti da campi che con la fotografia c’entrano poco o nulla) negli ultimi anni si è fatto largo nel campo della fotografia industriale, pubblicitaria, specie in quella della Grande Distribuzione, in virtù della sua grande serietà e dedizione al lavoro ha visto proprio ultimamente (parliamo grosso modo degli ultimi due-tre anni) decrementare vertiginosamente la domanda di fotografie tali e quali (parliamo ovviamente ed esclusivamente di fotografia digitale realizzata con medio formato, Hasselblad & Co.) a netto favore di campagne a lui richieste di video, di puri video.
Sentendo quest’ultimo soggetto mi è tornata alla mente quanto mi confidava Massimo, persona squisita, socio di Toni, lo stampatore per decenni di Gabriele Basilico, alias il premiato e rinomatissimo laboratorio meneghino che porta ancora il nome di De Stefanis, a lungo stampatore, tra gli altri, di giganti della foto quali Aldo Fallai2, Gianni Berengo Gardin, l’inarrivabile per maestria Piero Gemelli et cetera: “un tempo” – mi confidava Massimo – “la foto, il servizio, era moneta corrente, la sera ci davano i rulli e si andava avanti tutta la notte a stampare centinaia di immagini per l’indomani mattina. Senza foto non c’era storia”.
Oggi la “moneta corrente” è un oceano di immagini che tracimano ed attraversano allo stesso tempo i social media alle quali si associano, si immettono, sempre più pittogrammi, istogrammi, geroglifici – non sapremmo come definirgli meglio – artificiali, sintetici, che non solo non hanno mai visto la “luce vera” ma che si si sono originati basandosi su una produzione automatica, algoritmica, di dati, di lacerti, di spezzoni immagazzinati senza soluzione di continuità, senza nessun distinguo qualitativo, senza alcun discernimento, come mere schegge, detriti inerti con cui (ri)comporre uno spettrale scimmiottamento della realtà immaginativa, documentaristica e/o artistica.
Non è un caso che l’immagine vincitrice del concorso fotografico che ha fatto esplodere al calor bianco la diatriba sull’uso lecito o meno dell’A.I. riporta in alto, a sinistra, due falsi graffi sulla superficie come a riecheggiare una artigianalità, una manualità, del fare-fotografia che in tutta evidenza è un falso clamoroso, segno che la cattiva coscienza dell’operatore (come definirlo fotografo?!) ha fatto sì che volesse darci un segnale, un rigo, una frase appena… per metterci in guardia.
“Lo scopo di fotografare è che non devo spiegare le cose a parole”
Elliott Erwing
Prova provata di tutto ciò – un campo che abbiamo calcato in prima persona per decenni – anche la classica richiesta da parte dell’editoria di settore, da parte degli appartenenti agli albi professionali (gli architetti in primis), dal settore O.E.M. (le aziende produttrici di mobilia ed oggetti di complemento di design, vedi il distretto brianzolo di Meda come Mecca di tutto ciò…), le agenzie fotografiche (noi eravamo rappresentati dalla mitica Franca Speranza ad esempio), gli Archivi statali o para-statali o privati o aziendali e via di seguito se non hanno cessato hanno ridotto drasticamente la richiesta di produzione di fotografie causa la facile disponibilità di rendering 3d computer-generati.
Come se non bastasse: un gigante della distribuzione di materiale fotografico professionale che sino a pochi anni fa constava di una compagine di quasi 22 addetti è ridotto al lumicino (genialoide, aveva realizzato compendium speciali per banchi ottici; fu tra i primi in assoluto a convertirsi alla nascente allora tecnica digitale; tra i primi se non il primo a disporre di dorsi digitali alto di gamma; girava mezza Italia a costruire limbi per studi fotografici; ebbe come cliente Basilico ed Aldo Ballo in persona…) e ci testimonia la moria indicibile di studi fotografici che chiamano implorando di comprar loco la selva di bank e parco luci oggidì senza alcun impiego…
Potremmo continuare per un pezzo ma la ritrosia ce lo impedisce, ritrosia nel descrivere un campo di battaglia desolato che invece riservava non poco tempo fa gloria a vario livello, un po’ per tutti, tanto era fiorente e ricco e piacevole. Il nostro desiderio fervente è quello di sbagliarci in toto in questa disamina e di aver preso dei sonori abbagli: ci dispiacerebbe colla morte nel cuore che la Fotografia divenga il prossimo Morto che Cammina!
- Da notare che non trattiamo una questione ad personam contro Muller o chicchessia: Muller potrebbe essere sostituito da Steven Klein senza colpo ferire, senza mutar di una virgola il senso del discorso…
- La mostra a questi dedicata da Giorgio Armani al suo Silos Armani è indimenticabile: disposta su due piani interi di questo sito che solo a giudicarne la valentia architettonica ripaga della visita (progetto di Tadao Ando) dimostra in maniera lampante quanto la bravura di un fotografo che usava mezzi semplici (formato Leica tanto per intenderci e luci risicate…) potesse assurgere a vertici estetici sommi, nonostante ingrandimenti oltre 1 metro per 1 e 2, fregandosene altamente della grana grossa come i chicchi della grandine, il tutto condito da sovra-esposizioni marchiane! Altro che glaciale perfezione tecnica del digitale! NB: Aldo Fallai è un altro “desaparecido” dell’iconografia fotografica dei giorni nostri …. Sono i Muller che sono à la page oggidì!