Di Danilo Fabbroni
Doktor Faustus, l’A.I. come malattia senile del post-moderno. Che non bisogna cadere nella scontata trappola del buttar via il bambino con l’acqua sporca né tantomeno del fasciare l’erba indistintamente, è cosa scontata, ma è pur vero che taluni avanzamenti del Pensiero sono innegabili e difficilmente contestabili, ovvero si accettano comunemente.
Senza scomodare pomposamente un lugubre uccello del malaugurio come Heidegger, l’esser messi in guardia dalla soverchiante “potenza della tecnica” oramai lo si sa anche al circolo delle bocce sotto casa nostra. La Tecnica, in breve, non è nient’altro in fin dei conti che la continuazione della scienza in altri termini e lo diciamo sulla scorta del grande stratega militare von Klausewitz secondo cui la guerra non era altro che la continuazione della politica.
La Tecnica è il porsi nell’efficientissimo (come praxis) della scienza in quanto sola teoresi. “Sono Efficiente dunque Sono”, questo in estrema sintesi icastica potrebbe essere il selfie della Modernità: del resto il dominio dello scientismo coincise, fu anzi un tutt’uno coi Lumi, a scapito di quello che si credevano ignoranze, magie, superstizioni, financo alla religione medesima.
Non per nulla l’eclissi della Religione iniziò colla rivoluzione dei Lumi, col suo bagno di sangue immane (il che di già ci dovrebbe far capire quanto sordido e malato fosse l’Illuminismo). Di fronte all’invenzione della penicillina, ad esempio, chi avrebbe l’ardire di contestarla? Si dirà, forse un membro degli Amish non gradisce o non gradirebbe il curarsi quindi rifiuterebbe anche la penicillina ma al di là di questa estrema opposizione non è data fatica a chiunque a riconoscere l’estrema validità del medicinale di cui parliamo.
Di esempi come questo ce ne sono a iosa, a tutta randa: chi contesterebbe la validità dell’ascensore a parte quelli che abitano a piano terra? Nessuno crediamo a parte il pagare la salata retta di manutenzione dell’attrezzo. Verrebbe quindi quasi spontaneo avallare ogni salto in avanti, ogni progresso della Scienza e della Tecnica, senza condizionale di sorta. Del resto è così che va il mondo, basti vedere le code oceaniche di fronte alla genesi dell’ultimo smartphone à la page.
Quando apparve la conversione della fotografia basata sull’uso della pellicola o della carta (Polaroid) verso un uso senza questi elementi (immagine “immagazzinata” quindi in memorie sintetiche digitali) furono molti a gridar allo scandalo, alla bestemmia in chiesa, adducendo che una certa faciloneria (solo parzialmente vera) del digitale svilisse l’opera fotografica come se un fotografo che non si trova a sudare le proverbiali sette camicie per scattare in analogico non potesse mai assurgere alla dignità fotografica.
L’intento era sin troppo chiaro: si voleva premiare un tasso d’artigianalità del fare fotografico – una sorta pesantezza del vivere fotografico tutto sudore, lacrime e sangue – la cui mancanza non assegnava patente di fotografo a nessuno. Ci si poteva batter il petto d’orgoglio a mo’ di King Kong solo decentrando, basculando, misurando la luce con un esposimetro esterno, mettendo a fuoco a mano colla cremagliera e via di seguito: la faciloneria digitale sviliva agli occhi dei più la valentia presunta di un fotografo.
Con ciò si dimenticava che alla fine dei conti proprio alla genesi della fotografia (analogica) essa fu fatta oggetto di un tentativo di screditamento in quanto o non era arte in sé e per sé oppure cadendo nell’ambito della “riproduzione tecnica dell’opera d’arte” finiva nella stessa spazzatura della prima ipotesi: di nuovo la facilitazione della fotografia nei rispetti della complessa arte pittorica (non parliamo di Transavanguardia … !) ne causava lo svilimento quando andava bene a mera “arte applicata”.
Da allora ai giorni coevi in cui un Elton John mostra di possedere una collezione imponente di “fine art photography” ce ne è voluto di giganteschi sforzi di accreditamento alla fotografia, per non dire delle immagini di Mario Testino – solo per dire uno, basti vedere Paris Photo et similia – che vengono proposte ben sopra le 10mila euro ad immagine nel circuito delle gallerie.
A mandar in mille pezzi la diceria che il digitale squalificasse l’arte fotografica ab initio analogica c’è voluto l’esempio luminoso di Giovanni Gastel che ha avuto dalla sua un iter estrinsecato dall’alpha all’omega: partito niente di meno colla macchina fotografica da guerre puniche, il banco ottico versione appena appena attualizzata rispetto a quella che scattò la primigenia fotografia storica, scattando immagini istantanee (o quasi…) su carta Polaroid di grande formato (circa 18×24 centimetri!) nella sua tarda carriera abbandonò tutto e si diede a scattare in digitale con una Canon piccolo formato (digitale) condendo il tutto con dosi massicce di photoshop, tradotto come la camera oscura del dopo-produzione.
La sua collezione di immagini di modelle a cui lui aveva apposto delle ali stile “angelico” in post-produzione sono sublimi: a nessuno dovrebbe fregare se siano o meno scattate colla tecnologica da guerre puniche con quella dell’età dello spazio. Il pathos che si percepisce, che emana da quelle immagini, ci fa risuonare dentro di noi corde che ci rammemorano le nostre più vaste profondità umane (ammesso che siano sopravvissute).
Nelle foto per quanto “ritoccate” sinteticamente (non come sintesi ma in quanto opera di un intervento digitale quindi non reale, non materico: quelle ali non esistono in realtà come son messe nelle foto) riecheggia un che di umano che ci fa sognare, ci fa trasvolare in una realtà altra: ognuno le interpreta come meglio gli aggrada ma è proprio il fatto, il processo che ha portato l’artista o anche il semplice e artigiano-fotografo a traslare un evento, un frammento dalla realtà materica ad un livello mitopoietico che ci affascina, ne sentiamo tutto il “calore”, tutto l’ardore. Ars gratia artis per certi versi.
D’altro canto non si deve sottovalutare che la facilità del digitale concorre o perlomeno invoglia taluni malcapitati alla faciloneria dello scatto, alla bulimicità della iper-produzione (testimone Instagram) mentre di converso l’analogico ha un potere frenante insito in sé (rullino Leica. 36 sole pose! O peggio mi sento, banco ottico, 2 pose ogni chassis porta-pellicola! Una foto, circa un’ora di tempo… ).
Tale ralenti della prassi nel caso analogico ovviamente favorisce, induce ad un soppesare meditabondo dello scatto: è noto che la percezione è inversamente proporzionale alla velocità. A 300 chilometri allora in una moto vedo poco, scorgo a malapena la fettuccia di strada dinnanzi a me; in automobile, una normale, riesco a percepire il panorama meglio; in bicicletta ancor di più; a piedi vedo cose che quegli altri umani non hanno potuto vedere.
Si capirà facilmente che senza studiare con la dovuta calma una tranche de vie, un quadro esistenziale, l’output di ogni realizzazione artistica, sia essa narrativa, musicale, pittorica, scultorea, grafica e via così sarà all’insegna del pensiero debole, claudicante, per non dir peggio, priva di ogni valentia o quasi. Orbene ultima entrata in scena nel Sunset Boulevard della Modernità Occidentale è l’A.I., ChatGPT e dintorni. Notissimo l’episodio glamour del vincitore di un prestigioso concorso fotografico che si è beffato del primo premio assegnatogli giacché l’immagine era stata prodotta dall’A.I.
Subito una canea di critiche ha subissato tale pratica tacciando la produzione iconografica cogli stessi anatemi che furono lanciati contro quella digitale e prima contro quella analogica come già si è detto. Pur tuttavia indossando gli scomodi panni dell’Avvocato del Diavolo si potrebbe e dovrebbe obiettare a tali soloni che le loro critiche sono vane nel senso che l’operatore (come chiamarlo altresì?) di A.I. nel produrre queste “fotosintesi” applica comandi, seppur digitali, alla macchina PC alla stessa stregua del fotografo che applica al vetusto banco ottico (pensiamo alla Deardorff, banco ottico di legno ed ottone di Richard Avedon!) coi suoi “messa a fuoco manuale” ed eventuali decentramenti (non per Avedon ma per Reinhart Wolf ad esempio) né più e né meno.
Quindi tale critica è grossolana, è una banalità di base e null’altro. Un’altra critica all’uso dell’A.I. in fotografia dovrebbe invece esser questa: essa è sintetica, è di plastica, è artificiale, è siderale, è lunare, è extra-terrestre. Ci spieghiamo o tentiamo di farlo. Puro dominio peculiare riservato solo alla specie umana è la mitopoiesi, il generare mitografia. Essa può essere sempliciotta, quella del quidam quanto quella del genio assoluto ma sempre è una proiezione, una traslazione, un porre su un piano diverso, un quadro materico, un istante di vita, che viene trasposto in pensiero e poi in linguaggio e nei casi “colti” in cultura nelle sue molteplici manifestazioni.
Dei ed animali mai scrissero e mai scriveranno, dipingeranno, proclameranno versi, “fotograferanno”, eseguiranno sculture e così via. Mai il loro linguaggio pur presente in certune loro specie si catalizzerà, si renderà concreto in alcunché, ma neanche sotto le primitive forme degli affreschi brutalistici di Altamira o Lascaux. Gli Dei, il Dio, per chi possiede Fede ha elargito i Sacri Testi come dono divino; per chi non possiede fede, tuttavia, uomini hanno vergato quelle pagine: è incontrovertibile che esistano testi sacri.
La catena indissolubile linguaggio-mitopoiesi-cultura è patrimonio esclusivo dell’Uomo. La genesi di questa catena aura è lo scrutare il Mondo, crearne da ciò una sorta di Weltanschauung e da qui “secerne” un portato: poesia, scultura, pittura, fotografia e via così. Sempre il punto focale di partenza rimane in tutti i casi un istante materiale, un “fermo immagine” che viene tratto a forza (vedi il fotografo che censura volutamente e coscientemente tutto quello che sta e rimane al di fuori dell’area di ripresa) dal reale e da qui si procede. La trasmutazione, la trasposizione in un altro ambito di quel “reale” per quanto possa essere ad alto tasso “traspositivo” porta in nuce, cela nel proprio cuore, sempre indelebilmente le origini, le stigmate, la Stimmung da cui proviene, da cui è tratta.
Proprio in ciò, in questa “mistura fine” sta il fascino dell’Arte a dispetto della variegata chance con cui legittimamente si interpreta un’opera d’arte (pensiamo quanto possa variare il giudizio di un violoncellista coreano su Bach rispetto a quello di un suo omologo sassone!): il fatto che l’Arte parla sempre dell’Uomo pur se paludato attraverso la scomposizione-ricomposizione che l’Arte fa dell’Uomo. Ora l’A.I. cosa fa invece: collettivizza, colleziona, cataloga, impalca, “assiema”, sussume una immane congerie di dati, come fossero miriadi e miriadi tasselli di un immenso e sconfinato mosaico e ne crea un output più che perfetto, sbalorditivo nella sua glacialità, perché di questo, in effetti, si tratta e di null’altro.
La foto che ha vinto il concorso era una parodia di quelle di Ansel Adams ed a dispetto dei suoi feroci critici poteva davvero parere una di esse a pieno titolo: solo che era falsa, falsa nelle sue recondite pieghe. Falsa perché artificiosa, sintetica non essendo basata su nessun episodio reale: quella luce non esiste, quelle nuvole mai viste, quelle colline mai avvenute, quel rigagnolo mai apparso. Un Falso mirabile ma sempre un Falso. Dietro all’Immagine c’è sempre un Uomo, ma è un Baro.
Il Baro ha sapientemente giocato tutte le carte (tutti gli input) ma l’asso nella manica non gli appartiene semplicemente perché non esiste: è una mitopoiesi sì, ma non contempla nessun tasso di umanità che non sia la volontà di fare una “operazione psicologica” e null’altro. Per tornare ai nostri inizî, dicevamo che la Tecnica è una Facilitazione, una spinta all’EFFICIENTISMO tout court: se sto male, prendo la penicillina; sgobbavo da morire coll’aratro, ora ho il trattore e via dicendo, indubbie migliorie, ma essa non è neutrale, cosa che Heidegger denunciò in maniera magistrale non a caso.
“Dietro all’Immagine c’è sempre un Uomo, ma è un Baro.
Danilo Fabbroni
La trazione anteriore dalle automobili permette economie di scala e quindi quella posteriore ha perso il passo; l’interruttore meccanico nello smartphone nelle fasce medio-basse almeno, viene sostituito da quello digitale per ragioni economiche e se ne potrebbero far a dozzine come minimo di questi esempi: il complesso scientifico-tecnico è a rimorchio della Dittatura della Finanza e questo per buona pace per i creduloni omaggianti i diktat di Davos, Schwab e compagniabella. Del resto i testi come Il tao della fisica di Frijtof Capra, eminente scienziato e La gnosi di Princeton commentata dall’iniziato Claudio Bonvecchio la dice lunga del flop, del bluff in cui è caduto l’Illuminismo: dallo scacciare la Superstizione è finito coll’imbracciare il Tao e la Gnosi!
Scienza, Tecnica uguale efficientismo: un disegnatore meccanico in 3d disegna un ingranaggio col giusto meshing, colle giuste dimensioni, è efficiente, lo fa prima e meglio che se adoperasse il tecnigrafo da guerre puniche: anche qui il punto di partenza non è materico, ma qui si tratta di tecnica appunto non di Arte, quello che serve come output è la precisione, non il pathos. Un disegno meccanico mostra una unica interpretazione, non è cangiante a seconda di chi lo guarda, la quota è quella quota e basta, punto a capo, l’arte è multiforme, polivalente, ma soprattutto ci ricorda a noi tutti quanto siamo uomini per fortuna. L’A.I. (almeno nella fotografia) ci rimanda solo lo Spettro di essere una Società di Spettri.
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