Nella stragrande maggioranza dei casi un ritratto pittorico è intrinsecamente legato all’identità del soggetto raffigurato. Significa che nel modo in cui viene concepito, in quello che si propone di raccontare – consciamente o inconsciamente – spesso anche nel come lo fa, esso ha un forte legame con chi ha posato, con l’epoca in cui l’operazione è stata fatta, e con la cultura nella quale l’artista e il soggetto sono immersi.
Nei casi più estremi la raffigurazione sbocca talmente nell’aneddotico da avere una funzione simile a quella delle foto-ricordo.
Questo ha delle immediate conseguenze sull’interesse che l’opera può rivestire nel corso del tempo, sulla sua valutazione dal punto di vista artistico e ovviamente anche sul mero valore di mercato.
E il motivo è molto semplice e pratico: se il legame è forte, a filo doppio, se quasi è una emanazione del soggetto ritratto, sarà questi ad avere un forte interesse all’opera che lo rappresenta, tanto maggiore quanto più la consideri riuscita ed efficace.
Tutte le mie immagini sono autoritratti, anche se non ci sono dentro io.
Nuno Roque
Altri tuttavia, oltre all’interessato/a, anche fossero congiunti, o discendenti, avranno con l’opera un rapporto di interesse ed affezione ben diverso, in taluni casi nullo.
Questo è il principale motivo per il quale i ritratti, una volta deceduto il soggetto, molto spesso vengono tolti dalle posizioni di “rappresentanza” in cui stavano fino a quel momento per intraprendere percorsi tortuosi che nei casi importanti li portano assieme a quelli di altri familiari o notabili lungo le pareti di scale o corridoi, mentre nei casi più comuni in soffitte, cantine e mercatini di rigattieri. Sic transit gloria mundi…
Ma vi sono casi in cui il ritratto, oltre a dire del soggetto, racconta anche molto altro. E allora le cose vanno molto diversamente.
Vi sono ritratti, in pittura, ma anche realizzati con altri media e linguaggi, nella cui realizzazione l’artista non guardava al soggetto che stava ritraendo con riferimento al fatto che avesse un nome, un cognome, un indirizzo e magari una posizione sociale, economica, politica.
Ma ne scrutava, con occhi da antropologo, la forma, il carattere, la fragilità e la forza, in quanto esemplare della razza umana, cosciente, intelligente e responsabile.
Ne indagava, con occhi da drammaturgo ancor più che da artista, il ruolo nell’eterna commedia e tragedia del vivere, gli archetipi incarnati attraverso il mistero di un gesto, una postura, uno sguardo.
E ne contemplava, con occhi da poeta il palpito di emozioni che le sembianze rimandano all’osservatore, suscitando memorie, paralleli e connessioni.
In quei casi il ritratto travalica il “genere” a cui appartiene, per evocare una universalità che non interessi solo il soggetto, i suoi relativi, i suoi coevi. Ma abbia qualcosa da dire, qualche corda da toccare, anche nell’anima di esseri umani distantissimi nel tempo e nello spazio, appartenenti a epoche, culture e collocazioni geografiche del tutto diverse.
E in quei casi il ritratto, considerata opera d’Arte a tutto tondo, non solo viene conservata nel luogo dove il principale interessato amava tenerla collocata, ma può cambiare mano e salire di valore, per stabilirsi magari in un museo, dove un pubblico più vasto può goderne di persona.
Perché è sempre diverso osservare un’opera in una riproduzione ed ammirarne dal vivo la presenza materiale, materica, dimensionale.
Ed ecco che allora, incrociando lo sguardo con gli occhi del ritratto singolo o multiplo, potremo avere quasi la sensazione di conoscere le presenze che lo animano. Pur non sapendo chi mai possano essere stati quegli esseri nelle loro realtà di cronaca materiale, a quel punto non più influenti.