Decenni e decenni fa irruppe nel Luna-park della Società dello Spettacolo un film giapponese – L’Impero dei Sensi – che celebrava, (scoprendo l’acqua calda) quello che fu un Leit-motiv di un grandioso Maestro del Sospetto, Herr Sigmund Freud, vale a dire l’iter che da Eros va verso la sua epifania: Thanatos (la Morte inverata).
Una messe di Sensi – si trattava di quello che oggi il birignao condiviso appella “rapporto tossico” di coppia – costellava la pellicola cinematografica del Sol Levante come se il perno-imperniante della nostra esistenza stesse unicamente in questa Celebrazione pan-erotica.
I Sensi costituivano un vero e proprio Impero, un Tutto insomma, un Planisferio.
Ora l’Impero va inteso come l’intesero la sardonica dualità rosso-vestita Toni Negri e Michael Hardt anni orsono nel loro celebratissimo saggio – non per nulla popolarizzato a dismisura dai livelli apicali dell’establishment dell’Industria Culturale di mezzo mondo – L’Impero appunto. Da notare che una sottotitolazione del volume recava la parola Reich a mo’ di traduzione in tedesco di impero.
A fianco di Reich viene automatico gemellarci un altro termine tedesco, purtroppo negativamente noto, Lebensraum, grossomodo da intendere come “spazio vitale”.
In effetti l’intenzione neanche tanto recondita de L’impero dei sensi era quella di farci intendere che quell’insieme – matematica insiemistica intendendo – non potesse essere popolato da altro che da porno-alalie, da sequele endless pornologiche tali e quali le infinite concatenazioni di accoppiamenti illustrateci da Donatienne Alphone François de Sade.
Si veda a questo proposito La Chiesa di Sade, presso Mimesi edizioni per la mano del sapiente Riccardo de Benedetti. Esattamente quel dispiegamento, come fossero i numeri di Fibonacci, sono stati pantografati – scalati – oggidì ma per formare una filigrana più vasta, ben più omnicomprensiva: L’Impero dei Segni.
Non si tratta qui di far della negromanzia e richiamare a vita il pensiero degli aedi della Vanity Fair d’oltralpe, Derrida, de Saussure, Lacan, Foucault et alii non dimenticando il nostro Umberto Eco, oramai ferri vecchi, utensili arrugginiti buoni solo per la discarica urbana. No di certo.
Né vogliamo ricorrere alle nuove – si fa per dire – teste d’uovo come Byung-chul Han o il nostro Mauro Magatti, tanto per citarne solo alcuni, pensatori lucidi ma eredi – consapevoli o inconsapevoli non è dato sapere – delle formidabili intuizioni di Giorgio Cesarano e Gianni Collu, risalenti ai primi anni Settanta.
Al contrario si tratta di constatare sic et simpliciter che l’orizzonte della Lebensraum, del nostro Spazio Vitale è costellato anzi dominato – noi volenti o non-volenti non importa a Lor Signori, Menti Raffinatissime – da una pletora immane, da una Mare Magnum oceanico, in maniera bulimica, di Segni.
Se si trattasse solo di questo non se ne adonterebbe nessuno.
L’esizialità – concedeteci il neologismo – di questo “stato delle cose” può essere icasticamente riassunto in una fulminea battuta di Flajano che allorquando imperversava il pensiero à la page di McLuhan, stile “il medium è il messaggio” soleva dire: “Allora quando il postino mi porta una lettera debbo leggere il postino?”!
Si tratta esattamente, millimetricamente, di questa topica: i Segni vengono additati da tutti come la pietra angolare novella, come il passe-partout per le Porte della Percezione, quando invece quei Segni sono posti lì, immanenti, per esser letti, guardati, apprezzati, sussunti tale e quale il dito che indica la Luna mentre di quest’ultima viene obnubilata in toto, ignorata.
In effetti i Segni propalati la dicono e la sanno lunga, basterebbe leggerli in maniera basilare, senza i contorsionismi funambolici delle alalie dei soi-disant critici d’arte. Cosa mostrano quei Segni? Mostrano che il Re è Nudo dinnanzi ai nostri occhi ma i nostri occhi non sono più collegati ad un cervello atto a dispiegare il Logos, il Faro Massimo di un Occidente almeno sino alle soglie della Modernità.
I Segni in realtà parlano chiaro, mostrano un dito per mandarti a quel paese, una scatola stile Simmenthal piena di feci ovviamente d’autore; una tela tagliata col cutter: un vespasiano anzi un vero e proprio orinatoio da cesso, una mucca morta conservata in formaldeide; un piedistallo con niente sopra, niente di niente, ovviamente osannato “opera d’arte, da intitolare Il Nihil, il Nulla; un coniglio abnorme con un finissage tipo acciaio inox lucidato a specchio; un Cristo immerso nel piscio; un verace manico di un gatto a nove code – attrezzo in uso nell’antica marineria per fustigare i reietti – infilato nello sfintere anale di Robert Mappelthorpe; le deiezioni umani, fecali, del duo Gilbert & George, ma la finiamo qua altrimenti il conato di rigetto, di repulsione, è dietro l’angolo.
Non interrogheremo nessuna Sibilla,[1] nessun Oracolo che sia di Delphi o di altrove, sarebbe superfluo: questi Segni sono il segno della Futilità imperante, l’Essere Umano viene “spinto” verso l’Insignificante, gli si danno indicazioni chiare – per occhi vigili – che Egli è nient’altro che una commodity e come tale monnaie vivant, la gente, la plebe, la popolazione è “spendibile” a piacimento senza colpo ferire da parte delle Menti Raffinatissime.
In parole povere: chi mostra il Coniglio – orripilante parodia, detto tra l’altro, della elegantissima fisionomia di questo animale, in quanto riproposto come fosse sotto anabolizzanti e dileggiato giacché non c’è materiale più freddo dell’acciaio vieppiù se confrontato con la dolcezza della pelliccia del coniglio – durante un party nella propria penthouse nuovaiorchese, o nella sontuosa villa a Cap Ferrat, o nella mainson off-London, nel proprio chalet ad Aspen o in altri luoghi simili ameni, ha la ferma convinzione che la populace, come siamo chiamati tutti noi, animali parlanti, con loro come debita eccezione, è “perdibile”, disposable a piacere (qui torna l’ideologia del Divin Marchese de Sade): non valiamo neanche uno iota, un angström di quello che hanno pagato per quella ciofega di coniglio d’acciaio.
L’Arte è la capacità di separare il significativo dall’insignificante.
Poul Henningsen
Se si leggesse la trilogia El Centro, L’ambasciatore di Panama e Bersagli mobili firmato sotto le mentite spoglie di Marc Saudade, nom de plume di Furio Colombo si capirebbe tutto questo in un batter d’occhio. Eppure non tutto è perso, è vero, Il terribile è già accaduto, ma rari nantes in gurgite vasto ci sono e come se ci sono, lucciole fluorescenti nella notte più buia, ove le vacche son tutte nere.
Guardiamo per un momento – esempio tra i non molti ma neanche tra i pochissimi – all’opera tutta di Davide Frigerio, pittore outsider. Cosa ci troviamo al di là di una percezione gradita o meno delle sue tele? Ci troviamo indicati dei Segni, come di consueto, d’accordo, ma che valenza hanno?
Ebbene si tratta di valenze di ben altra portata rispetto al Culto della Futilità indicato da quell’arte fighetta ma soprattutto evince prorompente nelle sue tele, una apologia della Bellezza che contrasta – che stride genuinamente – contro il Culto del Brutto tanto vaticinato, tanto praticato, tanto osannato dalle larve psichiche che popolano la Lebensraum in cui purtroppo siamo immersi da veri e propri prigionieri. Pawns in the game, mere pedine di un gioco in cui il banco è una piglia-tutto, un win-win e noi siamo solo un loose-loose.
Il Brutto – dalla Teoria estetica di Adorno all’affezione alla soillure, la rumenta, la spazzatura di Bataille – ha (stra)vinto la guerra di classe. La figura della Donna la fa da padrone nelle opere di Frigerio (Frigerio è un figurativo non un astrattista e questo già la dice lunga: ricordiamo il confronto tra Pollock ed Hopper dell’articolo apparso da poco?).
Una Donna che sebbene non sia una figura mariana – c’è molto Eros e poco Agape … – è senza ombra di dubbio l’icona, la raffigurazione senza infingimenti del solo essere umano che può Creare, può dar fattivamente la vita ad un altro essere umano: ogni e qualsiasi confronto con le Banalità di Base dell’arte fighetta è semplicemente improponibile.
Un altro rizoma che ha un peso specifico nell’arte di Frigerio è l’Architettura, in special modo gli edifici, quelli industriali in primis, la periferia urbana. Ora si dirà: ma gli edifici cosa dicono? Eh, gli Edifici in realtà parlano a coloro che non son muti e che non son sordi e a chi ha occhi da vedere. Gli Edifici hanno occhi, bocca, naso, orecchie, capelli & barba, talvolta, come il Bosco Verticale meneghino che appare come un modello barbudos sulla copertina di L’UomoVogue, ispido, baffuto, irsuto, scompigliato insomma.
Essi dicono di noi, sono un manufatto umano che porta tutte le nostre stigmate, nel bene e nel male. Frigerio li ritrae nella loro quintessenza. Nelle sue grandi tele spesso e volentieri si affastellano quotidiani più che obsoleti, con un’attinenza grafica o temporale a quello che viene ritratto sulla tela: un vecchio edificio della Germania dell’Est, al tempo dei sovietici, viene ritratto su una bizzarra sinopia costituita da lacerti di pagine di quotidiani coevi di quell’epoca, ingialliti, incartapecoriti, coi lembi frastagliati.
Di nuovo siamo in presenza a dispetto che la tela piaccia o non piaccia di un tema marchiano, seminale, del Vivere Umano. Uno dei primi passi dell’Umanità verso un lontano obiettivo di civiltà fu quello di abbandonare il vivere nelle caverne a favore di una capanna che sebbene rudimentale è già oikos, casa, centro, culla e perché no? tempio del nostro vivere.
Un altro tema, last but not least, frigeriano è il “Convivio”, ancorché visto e trasposto nella sua forma più basilare: il bar, il bistrot accordato alla sergio-caputo dell’Hemingway’s Café Latino, financo il bordello d’antan: voi direte che tutti questi soggetti sono ordinarî, dozzinali financo triviali.
Ci stiamo sbagliando: ordinaria, dozzinale, triviale è l’Arte Fighetta che ha a cuore la Banalità ed il Brutto tout-court fine a se stesso. I bar, i casini, i prostiboli, i bistrot “raccontati” da Frigerio parlano di una sola cosa: parlano di Umanità non-di-plastica. Questo vi sembra poco? Non vi è Impero dei Segni qui: qui vive la Vita Vera.
[1] È di questi tempi la comparsa di uno dei rari pamphlet che irride alle scempiaggini di certa arte moderna: Contro l’arte fighetta a firma di Cristian Caliandro.